Il pittore delle stanze vuote, del fluire silenzioso della vita, dello scorrere malinconico e inesorabile del tempo, dal mistero di una porta aperta, di una finestra, di un angolo di luce fredda, di una figura ritratta rigorosamente di spalle.
Immagini forti di solitudine, di angoscia esistenziale, di illusoria ricerca di ordine e armonia nel lavoro del danese Vilhelm Hammershøi, pittore riservato e reticente all’eccesso. Introspettivo, malinconico, misterioso e come ne ebbe a dire Rilke «Lungo e lento, ma in qualsiasi momento lo si colga esso mostrerà sempre ciò che è importante e essenziale nell’arte».
«Scelgo un tema per le sue linee – scriveva – per ciò che io chiamo il contenuto architettonico di un’immagine».La luce non aveva bisogno di molto colore «perché – sosteneva – il miglior effetto in un dipinto si ottiene con il minor colore possibile». Di qui le sue tinte scarne, le delicate variazioni di bianchi e di grigi, di uno spazio ermeticamente chiuso e di un vuoto inquietante.
Interior with young woman seen from behind, *oil on canvas *60.5 x 50.5 cm *1903-1904 *signed b.l.: VH
E’ un tempio la Natura ove viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l’uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari. I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte ed il chiarore.
Esistono profumi freschi come
carni di bimbo, dolci come gli òboi,
e verdi come praterie; e degli altri
corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno
l’espansione propria alle infinite
cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio,
il benzoino, e cantano dei sensi
e dell’anima i lunghi rapimenti.
Charles Baudelaire
Da I fiori del male,Les Fleurs Du Mal, 1857
Traduzione di Luigi De Nardis, Milano, Feltrinelli, 1964
Oh, tu bene mi pesi l’anima, poesia: tu sai se io manco e mi perdo, tu che allora ti neghi e taci. Poesia, mi confesso con te che sei la mia voce profonda: tu lo sai, tu lo sai che ho tradito, ho camminato sul prato d’oro che fu mio cuore, ho rotto l’erba, rovinata la terra – poesia – quella terra dove tu mi dicesti il più dolce di tutti i tuoi canti, dove un mattino per la prima volta vidi volar nel sereno l’allodola e con gli occhi cercai di salire – Poesia, poesia che rimani il mio profondo rimorso, oh aiutami tu a ritrovare il mio alto paese abbandonato – Poesia che ti doni soltanto a chi con occhi di pianto si cerca – oh rifammi tu degna di te, poesia che mi guardi.
“Per un breve periodo di tempo Kubrick si dedicò completamente alla fotografia, ritraendo la realtà del dopoguerra americano attraverso attimi rubati a personaggi noti o a fugaci figure metropolitane, dando alla luce scatti che, per la loro umanità, sembrano varcare il confine del tempo. Sotto quest’ottica, colpiscono in particolar modo gli scatti ‘spontanei’ realizzati per le strade di New York, vera e propria rassegna intimista delle varie anime che popolavano la città all’epoca del secondo dopoguerra.”
Ecuba è una superstite, una donna che raccoglie le sue e le altrui memorie mentre vive in uno scantinato dove ricicla rifiuti. La sua umanità è stratificata, è fatta di orrori e di grandezze,di dolori impronunciabili e coraggio. Ecuba e le altre racconta del desiderio di ogni rinascita, della volontà inarrestabile di opporsi alla violenza, al potere, alla guerra.
“Cos’è la traduzione? Su un vassoio
la testa pallida e fiammante d’un poeta”
(V.Nabokov)
L’imballatore chino
che mi svuota la stanza
fa il mio stesso lavoro.
Anch’io faccio cambiare casa
alle parole, alle parole
che non sono mie,
e metto mano a ciò
che non conosco senza capire
cosa sto spostando.
Sto spostando me stesso
traducendo il passato in un presente
che viaggia sigillato
racchiuso dentro pagine
o dentro casse con la scritta
“Fragile” di cui ignoro l’interno.
E’ questo il futuro, la spola, il traslato,
il tempo manovale e citeriore,
trasferimento e tropo,
la ditta di trasloco.
Guillaume Colletet (dall’elegia “Contre la Traduction”)
Han van Meegeren fu il più abile falsario che l’Europa abbia mai conosciuto, capace di bidonare chiunque grazie a una tecnica incredibile e alla conoscenza dei più raffinati metodi di sofisticazione.
Han van Meegeren
Da giovane venne considerato un artista fallito. Per i suoi docenti all’Accademia di Belle Arti non sarebbe mai stato un artista nel vero senso del termine. La manualità c’èra ma mancavano la genialità,meglio dedicarsi ad altro. E difatti cominciò ad apprendere le tecniche di falsificazione da Theo Van Wijngaarden, famoso restauratore e falsario operante ad Amsterdam in quel periodo. Un po’ sbruffone, van Meegeren si vantava di imitare Rembrandt e Vermeer meglio di Rembrandt e Vermeer. Con le frodi divenne ricco ma il suo fine segreto era un altro: voleva prendersi una rivincita su quanti, da ragazzo, gli avevano consigliato di lasciar perdere con la pittura.
Non commise mai l’errore di copiare opere di Vermeer esistenti: creò invece dipinti nuovi, inserendo con cura della polvere nel falso appena terminato per provocare la claquelure (lo spontaneo reticolo di piccole crepe, tipico delle tele ad olio invecchiate. La sua genialità arrivò a tal punto che Meegeren, per rendere sempre più credibili i suoi falsi d’autore e ingannare così gli esperti, si adoperò per reperire materiali e pennelli usati 300 anni prima.
Ha addirittura avuto l’ardire di vendere i suoi falsi anche ai gerarchi nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Quando si trovò un Johannes Vermeer, di cui non si sapeva nulla, nella raccolta del leader nazista Hermann Goering, Van Meegeren, fu accusato di collaborazionismo. Di fronte alla possibilità della pena di morte, Van Meegeren confessò di aver falsificato il dipinto. Silenzio in aula, il pennello all’artista! Per dimostrare la propria innocenza e quindi di avere raggirato il nemico, alleggerendo così la sua posizione, si mette a dipingere durante una delle udienze: riproducendo un Vermeer in modo tanto preciso da scagionarsi.Il giudice lasciò cadere le accuse di tradimento. Ma Van Meegeren fu arrestato di nuovo, questa volta per falso e truffa. Venne condannato a un anno di prigione, dove morì per un attacco cardiaco un mese dopo il processo.
Mi costa davvero tanto pubblicare la lettera in cui Pirandello, scrittore amatissimo e mio conterraneo, raccomanda il figlio “il quale e’ ora a spasso” rivolta allo scrittore Bontempelli in una lettera del 1931 scritta da Parigi. Ma del resto anche gli angeli, si sa, possono camminare su qualche zoccolo.
Luigi e Stefano Pirandello
«So da mio figlio Stefano che stai per dar nuova vita alla rivista “900”, ma in grande questa volta, e a foglio settimanale. Caro Massimo, desidererei tanto che la rubrica della critica letteraria tu l’affidassi al mio Stefano, il quale è ora a spasso. Egli s’è rimesso a lavorare seriamente, e quel posto gli servirebbe in tutti i modi. Conto sulla tua amicizia, e ti ringrazierò a cose fatte».
È una raccomandazione per il figlio 36enne disoccupato quella che Luigi Pirandello formulava allo scrittore Massimo Bontempelli in una lettera inedita, datata Parigi 15 gennaio 1931, custodita nel Fondo Manoscritti del Getty Research Institute di Los Angeles e ora pubblicata a cura di Giuseppe Faustini sulla rivista «Nuova Antologia». Stefano divenne poi autore teatrale con lo pseudonimo di Stefano Landi.
Stefano Pirandello
Nella stessa lettera la confessione della atroce solitudine:
«Io mi sento qua (ma ormai come dovunque) in un’atroce solitudine. Ho la consolazione di seguitare a deperir corporalmente sempre più, di giorno in giorno, come una promessa che presto finirò di patire. Ne sarebbe tempo».
Lo scrittore di Agrigento morirà cinque anni dopo, il 10 dicembre 1936.
Le fotografie in bianco e nero di Erwitt rivelano con “ delicato” sarcasmo le emozioni basiche e le illusioni contraddittorie degli esseri umani. Riescono a immortalare una realtà esteriore gonfiata, pomposa e inconsapevolmente ironica, sgonfiandone sardonicamente la falsità e mettendone in mostra l’ipocrisia. Attraverso le sue immagini percepiamo la fragilità della linea di demarcazione tra l’estetico e l’introspettivo, tra il senso e il non senso, tra la forma e l’essenza. Geniale.
Erwitt utilizza un umorismo paradossale e fantastico mediante un gioco di accostamenti grotteschi, surreali e assurdi e sfrutta la coincidenza, l’avvenimento fortuito e bizzarro come metafora per riflettere con sguardo irridente sulle vicende umane.
“Quando è ben fatta, la fotografia è interessante. Quando è fatta molto bene, diventa irrazionale e persino magica. Non ha nulla a che vedere con la volontà o il desiderio cosciente del fotografo. Quando la fotografia accade, succede senza sforzo, come un dono che non va interrogato né analizzato.” Elliott Erwitt
Pittore francese fu tra le figure più significative del fauvismo
Nel 1905 Gustave Moreau e decise di raggruppare alcune delle loro opere nella sala centrale del Salon d’Automne di Parigi in modo da amplificare l’effetto dirompente delle loro singolarità. Il critico d’arteLouis Vauxcelles definì la sala come una “cage aux fauves” cioè una “gabbia delle belve”, per la “selvaggia” violenza espressiva del colore, steso in tonalità pure. Gli artisti presenti nella stanza centrale del Grand Palais erano Henri Matisse, André Derain, Maurice de Vlaminck, Henry Manguin e Charles Camoin. Rispetto agli altri pittori fauve, Derain è più misurato, più luminoso, più sereno. tuttavia, non si distacca dall’estetica fauve: i colori caldi e freddi sono accostati in modo molto contrastante, stesi con pennellate larghe, pastose e libere.I Fauves furono attivi solo fino al 1908. Gravissima perdita per l’arte e la cultura per da spazio al successo del cubismo, visto come desiderio della forma e di una organizzazione maggiore che ponesse un freno all’assoluta libertà del colore.
“Mio caro Theo,
Anche se ti ho scritto solo poco tempo fa, questa volta ho qualcosa in più da dirvi.
Vale a dire che un cambiamento è avvenuto nel mio disegno, sia nel mio modo di farlo che nel risultato.
Spinto anche da una cosa o due che Mauve mi ha detto, ho iniziato a lavorare nuovamente da un modello dal vivo… Ho imparato a misurare e vedere e tentare le grandi linee. Così quello che mi sembrava essere disperatamente impossibile sta gradualmente diventando possibile, grazie a Dio…”
Nell’aprile 1885 Van Gogh finalmente realizza i ‘Mangiatori di patate’, una summa di tutti gli studi realizzati sino a quel momento ed il mio preferito in assoluto.