L’ultimo bacio.

Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola,
a mezzogiorno.

Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.

Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio, la guerra
(Gianni Rodari)

 

 

 

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Porgete attente

l’orecchie; e il fato,

che vi sta sopra, o re fanciulli, udite.

Dell’innocente

sangue versato

in scellerata guerra

conta il cielo le stille, e le schernite

lagrime tutte della stanca terra.

(Vincenzo Monti)

 

 

Dipingere il silenzio Vilhelm Hammershøi

 

Vilhelm Hammershøi *oil on canvas  *33.4 x 28.2 cm
Vilhelm Hammershøi

Il pittore delle stanze vuote, del fluire silenzioso della vita, dello scorrere malinconico e inesorabile del tempo, dal mistero di una porta aperta, di una finestra, di un angolo di luce fredda, di una figura ritratta rigorosamente di spalle.

Immagini forti di solitudine, di angoscia esistenziale, di illusoria ricerca di ordine e armonia nel lavoro del danese Vilhelm Hammershøi, pittore riservato e reticente all’eccesso. Introspettivo, malinconico, misterioso e come ne ebbe a dire Rilke «Lungo e lento, ma in qualsiasi momento lo si colga esso mostrerà sempre ciò che è importante e essenziale nell’arte».

 

«Scelgo un tema per le sue linee – scriveva – per ciò che io chiamo il contenuto architettonico di un’immagine».La luce non aveva bisogno di molto colore «perché – sosteneva – il miglior effetto in un dipinto si ottiene con il minor colore possibile». Di qui le sue tinte scarne, le delicate variazioni di bianchi e di grigi, di uno spazio ermeticamente chiuso e di un vuoto inquietante.

Charles Baudelaire, Correspondences.

Gene Dominique
Foto Gene Dominique

 Corrispondenze

E’ un tempio la Natura ove viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l’uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari. I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte ed il chiarore.

Esistono profumi freschi come
carni di bimbo, dolci come gli òboi,
e verdi come praterie; e degli altri
corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno
l’espansione propria alle infinite
cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio,
il benzoino, e cantano dei sensi
e dell’anima i lunghi rapimenti.

Charles Baudelaire

Da I fiori del male, Les Fleurs Du Mal, 1857
Traduzione di Luigi De Nardis, Milano, Feltrinelli, 1964

Valerio Magrelli L’imballatore

Foto: Haik Ahekian
                                                                  Foto: Haik Ahekian

L’imballatore

“Cos’è la traduzione? Su un vassoio
la testa pallida e fiammante d’un poeta”
(V.Nabokov)


L’imballatore chino
che mi svuota la stanza
fa il mio stesso lavoro.
Anch’io faccio cambiare casa
alle parole, alle parole
che non sono mie,
e metto mano a ciò
che non conosco senza capire
cosa sto spostando.
Sto spostando me stesso
traducendo il passato in un presente
che viaggia sigillato
racchiuso dentro pagine
o dentro casse con la scritta
“Fragile” di cui ignoro l’interno.
E’ questo il futuro, la spola, il traslato,
il tempo manovale e citeriore,
trasferimento e tropo,
la ditta di trasloco.

Guillaume Colletet (dall’elegia “Contre la Traduction”)

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Foto: jay satriani

Foto: jay satriani 

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – Cesare Pavese

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

*Composta il 22 marzo 1950  annuncia il suicidio dello scrittore avvenuto  il 27 agosto dello stesso anno.
Foto personale
Foto personale

VALERIO MAGRELLI – IL SANGUE AMARO

Foto: Monika Vanhercke
Foto: Monika Vanhercke

in una lontananza irraggiungibile.

Quando leggi, vai via, mi lasci solo

e inoltre mi impedisci di seguirti.

E’ come se,partendo,

non mi dicessi la tua destinazione.

Anche se la scoprissi ( e l’ho scoperta,

tant’è che posso vederti,

se soltanto mi sporgo),

comunque non mi lasci avvicinare.

La lettura è crudele, è ostile e solitaria.

Agota Kristof – Penso

Foto: Anna & Maciej Wojtas
Foto: Anna & Maciej Wojtas

Agota Kristof

 Penso 

Ormai non mi restano molte speranze. Prima mi muovevo, ero sempre in viaggio. Aspettavo qualcosa. Che cosa? Non lo sapevo. Però pensavo che la vita non potesse essere solo questo, vale a dire niente, la vita doveva essere qualcosa, e aspettavo che questa cosa arrivasse, la cercavo addirittura.

Oggi penso che non c’è niente da aspettare, per cui me ne sto in camera mia, seduto su una sedia, senza fare nulla.

Penso che fuori c’è una vita, ma in questa vita non succede niente. Almeno per me.

Per gli altri può darsi che qualcosa succeda, possibile, ma non m’interessa piú.

Sono qui, su una sedia, a casa mia. Fantastico un po’, niente di serio. Che cosa potrei fantasticare? Sto qui seduto, semplicemente. Non posso dire di star bene, non è per questo che ci resto, certo non per il mio benessere, al contrario.

Penso che restando qui non faccio niente di buono, e so anche che prima o poi, piú in là, dovrò alzarmi per forza.

Provo perfino un vago disagio a restare qui seduto, disoccupato da ore o giorni, non so. Ma non riesco a trovare un motivo per alzarmi e fare qualcosa. Semplicemente non vedo, ma proprio non vedo che cosa potrei fare.

Potrei senz’altro mettere un po’ in ordine, fare pulizia, questo sí.

Casa mia è piuttosto sporca, e trascurata. Dovrei almeno alzarmi per aprire la finestra, c’è puzza di fumo, di marcio, di chiuso, qui.

Ma tutto ciò non mi disturba piú di tanto. Un po’, ma non abbastanza per alzarmi. Sono abituato a questi odori, non li sento, penso solo che se per caso entrasse qualcuno… Ma «qualcuno» non esiste. Non entra nessuno.

Comunque sia, per fare qualcosa, mi metto a leggere il giornale che è sul tavolo da… da un certo tempo, quando l’ho comprato…

Naturalmente non mi dò la briga di prenderlo in mano. Lo lascio lí, sul tavolo, lo leggo da lontano, ma non mi entra né in testa né negli occhi, ci vedo soltanto delle mosche morte, per cui smetto di fare sforzi.

Ad ogni modo so che sull’altra pagina c’è un giovane, non giovanissimo, esattamente come me, che legge lo stesso giornale in una vasca da bagno rotonda, incassata, scorre gli annunci, le quotazioni di borsa, molto rilassato, un whisky di buona marca a portata di mano sul bordo della vasca. Sembra bello, vivace, intelligente, informato su tutto.

Pensando a quell’immagine sono costretto ad alzarmi, e vado a vomitare nel lavandino non incassato, ma banalmente attaccato al muro della cucina. E tutto ciò che mi esce da dentro ottura questo maledetto lavandino.

La vista di questo cumulo di spazzatura che mi sembra il doppio di quanto ho potuto mangiare nelle ultime ventiquattro ore mi lascia davvero stupito. Contemplando questa cosa immonda sono colto da un nuovo conato di vomito e mi precipito fuori dalla cucina.

Esco di casa per dimenticare, passeggio come chiunque altro, ma nelle strade non c’è niente, soltanto gente, negozi, nient’altro.

Non ho voglia di tornare a casa, per via del lavandino otturato, non ho voglia nemmeno di camminare, allora mi fermo sul marciapiede, di spalle a un grande magazzino, guardo la gente che entra ed esce, e penso che chi esce dovrebbe rimanere dentro, e chi entra dovrebbe rimanere fuori, si risparmierebbe movimento e fatica.

Potrebbe essere un buon consiglio, ma loro non lo ascolterebbero. Quindi non dico niente, non mi muovo, non ho neanche freddo qui, nell’entrata. Approfitto del caldo che esce dal negozio per via delle porte sempre aperte e mi sento bene quasi come prima, seduto nella mia stanza.

Agota Kristof — La campagna

Foto: Noam Mymon "il villaggio"
Foto: Noam Mymon “il villaggio”

Agota Kristof

 La campagna 

Diventava insopportabile.

Sotto le sue finestre, che davano su una piazzetta un tempo deliziosa, il frastuono delle auto, il borbottio dei motori non si placava mai.

Neanche la notte. Impossibile dormire con le finestre aperte.

No, davvero, non era piú tollerabile.

I bambini uscendo di casa rischiavano di farsi mettere sotto. Non c’era piú un minuto di requie.

Per miracolo gli proposero quella piccola cascina isolata, abbandonata dal proprietario, e che costava un tozzo di pane. C’era qualche lavoro da fare, certo. Il tetto, la tinteggiatura. E anche installare un bagno. Ma rimaneva comunque un affare.

E almeno era a casa sua.

Comprava il latte, le uova, la verdura da un fattore suo vicino spendendo la metà di quanto avrebbe speso nei supermercati della città. Ed erano prodotti genuini, naturali.

L’unica seccatura era il tragitto in auto – venti chilometri – quattro volte al giorno. Ma in fondo, bah, venti chilometri! Era questione di un quarto d’ora.

(Tranne se c’erano le code, gli incidenti, una panne, un posto di blocco, la nebbia, il ghiaccio o troppa neve).

Anche la scuola era un po’ lontana, ma una camminata di mezz’ora ai bambini fa un gran bene.

(Tranne se piove, se nevica, se fa troppo freddo o troppo caldo).

Tutto sommato era un paradiso.

E come rideva quando, arrivando in città, parcheggiava l’auto sulla piazzetta, spesso addirittura sotto le sue finestre di un tempo. Respirando i gas di scarico pensava con soddisfazione a quel che aveva risparmiato alla propria famiglia.

Poi ci fu il progetto dell’autostrada.

Consultando i disegni esposti in municipio, constatò che la futura strada a sei corsie sarebbe passata sulla sua cascina, o poco piú in là. La cosa lo scosse profondamente, ma dopo un istante ebbe come un’illuminazione: se l’autostrada passava sulla sua cascina o sul suo giardino, avrebbe ricevuto un indennizzo. E con l’indennizzo si sarebbe potuto comprare un’altra cascina.

Per vederci chiaro chiese un appuntamento con il responsabile.

Questi lo ricevette con cordialità. Dopo averlo educatamente ascoltato gli spiegò che aveva capito male, perché l’autostrada in questione sarebbe passata ad almeno centocinquanta metri da casa sua. D’indennizzo, dunque, neanche a parlarne.

L’autostrada fu costruita – un’opera magnifica – e tra questa e la cascina c’erano effettivamente centocinquanta metri.

Il rumore, del resto, si sentiva appena – una specie di brusio incessante cui ci si abituava molto in fretta. E il proprietario della cascina si consolò dicendosi che con quell’autostrada sarebbe arrivato piú rapidamente al lavoro.

Per precauzione, tuttavia, rinunciò a comprare il latte alla fattoria vicina, perché adesso le mucche del fattore pascolavano sul bordo dell’autostrada, dove l’erba, come tutti sanno, contiene molto piombo.

Sei mesi dopo, a cinquanta metri dalla sua cascina installarono dei gasometri.

Due anni dopo, a ottanta metri, un inceneritore di rifiuti domestici. Arrivavano tir dalla mattina alla sera, e la ciminiera dell’impianto fumava di continuo.

Intanto, in città, la piazzetta fu chiusa al traffico. Ci avevano creato un giardinetto con aiuole fiorite, arbusti, panchine per sedersi e un’area riservata ai bambini.

  L ‘assurdo paradossale surrealmente vero! Genio.

Wislawa Szymborska – Il 16 maggio 1973

Foto: Samantha Tran
Foto: Samantha Tran

Il 16 maggio 1973 

Una delle tante date

Che non mi dicono più nulla.

Dove sono andata quel giorno,

che cosa ho fatto – non lo so.

Se lì vicino fosse stato commesso un delitto

– non avrei un alibi.

Il sole sfolgorò e si spense

Senza che ci facessi caso.

La terra ruotò

E non ne presi nota.

Mi sarebbe più lieve pensare

Di essere morta per poco,

piuttosto che ammettere di non ricordare nulla

benché sia vissuta senza interruzioni.

Non ero un fantasma, dopotutto,

respiravo, mangiavo,

si sentiva

il rumore dei miei passi,

e le impronte delle mie dita

dovevano restare sulle maniglie.

Lo specchio rifletteva la mia immagine.

Indossavo qualcosa d’un qualche colore.

Certamente più d’uno mi vide,

Forse quel giorno

Trovai una cosa andata perduta.

Forse ne persi una trovata poi.

Ero colma di emozioni e impressioni.

Adesso tutto questo è come

Tanti puntini tra parentesi.

Dove mi ero rintanata,

dove mi ero cacciata –

niente male come scherzetto

perdermi di vista così.

Scuoto la mia memoria –

Forse tra i suoi rami qualcosa

Addormentato da anni

Si leverà con un frullo.

Il primo gennaio

Foto: alexandra_kirievskaya
Foto: alexandra_kirievskaya

Eugenio Montale

So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto.
So che si può esistere
non vivendo,
con radici strappate da ogni vento
se anche non muove foglia e non un soffio increspa
l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.
So che non c’è magia
di filtro o d’infusione
che possano spiegare come di te s’azzufino
dita e capelli, come il tuo riso esploda
nel suo ringraziamento
al minuscolo dio a cui ti affidi,
d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
So che mai ti sei posta
il come – il dove – il perché,
pigramente rassegnata al non importa,
al non so quando o quanto, assorta in un oscuro
germinale di larve e arborescenze.
So che quello che afferri,
oggetto o mano, penna o portacenere,
brucia e non se n’accorge,
né te n’avvedi tu animale innocente
inconsapevole
di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra
e una sostanza, un raggio che si oscura.
So che si può vivere
nel fuochetto di paglia dell’emulazione
senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato
da Chi volle tu fossi…e se ne pentì.
Ora,
uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
lo scheletro dell’albero di Natale,
ti accompagna in sordina il mangianastri,
torni indietro, allo specchio ti dispiaci,
ti getti a terra, con lo straccio scrosti
dal pavimento le orme degli intrusi.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perché gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa.

Valerio Magrelli – Diffamazioni

pink
Foto: Pink Sword

Diffamazioni

A Pierpaolo Pasolini

Avrebbe minacciato un benzinaio
Con la pistola carica
di un proiettile d’oro.
Cineasta e poeta, orafo e orco!
Ma cosa contestare a quest’accusa,
l’arma o la sua pallottola?
Cosa rivendicare,
Santa Romana Chiesa o l’usignolo?
Quel colpo mai sparato
traversa la sua opera
piegandola ad un duplice ossimòro,
fantastico fantasma
di violenza e pietà,
di sangue e alloro.

Charles Bukowski – Lancia il dado

Foto: Michael Bilotta
Foto: Michael Bilotta

Lancia il dado

Se hai intenzione di tentare, fallo fino in fondo

Altrimenti, non cominciare mai.

Se hai intenzione di tentare, fallo fino in fondo

Ciò potrebbe significare perdere fidanzate,

mogli, parenti, impieghi

e forse la tua mente.

Fallo fino in fondo.

Potrebbe significare non mangiare per 3 o 4 giorni.

Potrebbe significare gelare su una panchina del parco.

Potrebbe significare prigione, potrebbe significare derisione, scherno, isolamento.

L’isolamento è il regalo, le altre sono una prova della tua resistenza, di quanto tu realmente voglia farlo.

E lo farai a dispetto dell’emarginazione e delle peggiori diseguaglianze. E ciò sarà migliore di qualsiasi altra cosa tu possa immaginare.

Se hai intenzione di tentare,

fallo fino in fondo.

Non esiste sensazione altrettanto bella.

Sarai solo con gli Dei.

E le notti arderanno tra le fiamme

Fallo, fallo, fallo.

FALLO!

Fino in fondo,

fino in fondo

Cavalcherai la vita fino alla risata perfetta

È l’unica battaglia giusta che esista.

Charles Bukowski